Intervista ad Alessandra Paganardi

Intervista ad Alessandra Paganardi

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1) Tra i molti generi letterari, cosa determina in te la predilezione per la “forma breve” e per l’aforisma in particolare?

Posto che la distinzione fra generi sia ancora possibile, e posto che esista per ciascuno scrittore una passione preponderante, premetto che la mia predilezione non va principalmente alla forma breve, ma alla poesia. Parlare di poesia in questo contesto sarebbe un po’ fuori tema: mi limito ad osservare che la forma breve – o meglio l’amore per la densità – è trasversale ai vari generi e coinvolge anche – forse prima di tutto – il genere poetico: la brevità, del resto, è nella natura stessa della sintassi in versi, a prescindere dalla lunghezza totale del testo che si legge o si scrive. Persino un poema lunghissimo può avere densità aforistica – pensiamo ai poemi epici arcaici, alla lapidarietà dei versi formulari omerici o a certi memorabili endecasillabi danteschi: pagine bellissime e necessarie di “preliminari di poesia”, per così dire, per poi arrivare a quel solo verso, a quell’accensione potente di significato e di bellezza, a tal punto memorabile che il poeta e il lettore sentono il bisogno di ripeterlo più volte. Vogliamo scolpirlo farne un monumentum aere perennius, imprimerlo in una memoria non più soltanto nostra, affinché diventi patrimonio universale. E’ come se tutta l’opera dell’autore, pur interamente necessaria, vivesse in quell’unico pugno di immagini. Rispondo allora alla domanda con una conclusione provvisoria, che è insieme spunto per riflessioni ulteriori: la predilezione per la forma breve nasce in me da lontano ed è collegata a un’antica passione per la densità. Una densità non plumbea, ma capace di coniugarsi con la limpidezza: è il segreto di quella particolare, meravigliosa forma breve che è l’aforisma. La definirei “densità distillata”.

– 2) Quando è avvenuto il tuo primo incontro “fatale” con l’aforisma? E da cosa sei stato indotto a cimentarti in questo genere?

Sin dai tempi del ginnasio ammiravo gli scrittori che, oltre a comporre opere “creative”, amassero fermarsi a riflettere sulla vita e sulla loro stessa opera. Lo Zibaldone fu il mio primo amore, naturalmente – debbo dire, più ancora che il Leopardi poeta, proprio quello dello Zibaldone e delle “Operette morali”. Però nel frattempo avevo scoperto la passione di scrivere versi e di appuntare, chiosare, persino aggiungere note mie ai libri di letteratura italiana, greca, latina o inglese, come se non fossero già abbastanza quelle proposte dal noiosissimo commentatore…. E mi rendevo conto che, qualunque cosa scrivessi, pensavo in termini quasi gnomici a come avrei concluso il tutto. Quando scrivevo una poesia pensavo inconsciamente al verso finale, che infatti spesso – è stato detto da alcuni critici – ha mantenuto nel tempo un aspetto fortemente epigrammatico. Non per motivi puramente formali, credo, ma perché la chiusa di un’opera ne è sempre il suggello, il seme realizzato. Un aforisma in fondo non è altro che questo: un tentativo di distillare il percorso, senza propriamente cassarlo: facendolo sentire in un’estrema condensazione, come se il punto d’arrivo riassumesse in sé tutto il cammino e proprio per questo concentrasse in sé un’energia speciale, adatta per la ripartenza….mi viene in mente l’immagine lieve e gentile di un insetto saltatore – un grillo, poniamo caso – che nel posarsi sembra fermarsi un attimo, ma in realtà è sempre in movimento, in un alterno gioco di energia cinetica e potenziale. E’ il modo stesso di funzionare della mente: mai ferma, mai a riposo, neppure nel sonno, neppure quando formula un pensiero così denso come un aforisma, che pure richiede un’elaborazione e una limatura superiore a qualunque altro genere letterario, perfino alla poesia. Siamo animali in movimento perpetuo, l’intelligenza è questo. E se dovessi paragonare l’aforisma a un atto fisico, lo paragonerei proprio a un salto, o meglio al momento apparentemente breve e semplice – in realtà delicatissimo, articolato e difficile – in cui il pensiero, spiccato il salto, si posa a terra con grazia e si prepara a un altro slancio, proteso verso la sfida di un’altra idea.

3) Quali sono stati i grandi aforisti della letteratura classica che più ti sono congeniali e che ti hanno eventualmente ispirato? Ci sono uno o più aforismi sull’aforisma che secondo te definiscono al meglio questo genere?

A parte gli antichi autori di sentenze – penso ad alcuni autori dell’Antologia Palatina, a Marziale, a Orazio – la cui poesia si presta particolarmente a inserzioni aforistiche – oppure, risalendo ancora più indietro, a Democrito, non si può non ricominciare proprio da Leopardi: più che aforista, uno straordinario concentrato delle due qualità che un buon aforista deve possedere in abbondanza: creatività e razionalità. Si può dire che le sue riflessioni, anche se producono ragionamenti più che sentenze, sono alla radice stessa del fare massime, perché la loro limpidezza è davvero esemplare. Lo stesso dicasi per Michel de Montaigne, una mia lettura “de chevet” da quando frequentavo il liceo. Ricordare Kraus, fra gli ormai classici anche se più recenti, è quasi stucchevole, tanto è ovvio. Fra “metaaforismi”, poi, ne sceglierei uno, bello e leggero al tempo stesso, di Gabriel Laub: “Gli aforismi: schegge di pensiero che entrano dentro gli occhi”.

– 4) Ritieni che la letteratura aforistica contemporanea, in Italia, abbia dei rappresentanti in grado di raccogliere qualitativamente l’eredità dei nostri maestri del passato?

Se per contemporaneità in Italia intendiamo il Novecento, il pensiero corre subito ai giganteschi Bufalino e Flaiano; fra gli scomparsi da poco, doveroso citare due donne straordinarie, la Spaziani e la Merini: di quest’ultima ritengo addirittura che molta della sua miglior produzione sia proprio in aforismi. Tra i viventi segnalerei Guido Ceronetti, Dino Basili e Roberto Gervaso: tre aforisti diversissimi, ma accomunati da una riflessione sul genere umano pensosa, a volte satirica, mai astiosa, e da una formazione giornalistica che spesso – anche se non sempre – produce buoni frutti anche per l’aforisma. Di Gervaso vorrei esemplarmente citare un aforisma che metto senza indugio fra quelli memorabili: “Si può fare a meno di tutto. Purché non si debba.”. Non si può se non sottoscrivere la lode che Francesco Guccini, cantando “Luci a San Siro” in un concerto, rivolse al collega Roberto Vecchioni: “Maledizione, perché non l’ho scritta io??” … Altri sono bravissimi, ma non mi arrischio a citarli: li conosco quasi tutti di persona e non vorrei mai che la stima venisse scambiata per un tributo amicale, che è altra cosa…

5) A cosa ritieni sia dovuto il calo d’interesse verso l’aforisma, nei tempi recenti, da parte del mondo editoriale?

Forse a quello che parecchi aforisti stessi, riflettendo sul genere, hanno considerato il punto debole del genere: il rischio di trasformarsi in banalità. Oppure, all’opposto, alla difficoltà estrema dell’aforisma riuscito, il suo camminare sul filo del rasoio fra verità e dubbio. Due rischi che si assommano senza elidersi e fanno dell’aforisma un genere, per natura, di nicchia, in cui conta la rarità più che il numero.

– 6) Esiste, a tuo avviso, una strada da percorrere perché l’aforisma torni a conquistare l’attenzione dei lettori, soprattutto quelli delle nuove generazioni? Quali azioni indicheresti?

Ripartirei dalla radice naturale del genere aforistico: l’insegnamento della filosofia nelle scuole. Purtroppo la filosofia – e lo sa chi, come me, tenta da anni di insegnarla – è una disciplina oggi più che mai controversa: la si invoca ovunque possibile per “licealizzare” gli istituti – cioè, al fondo, per una questione ormai soltanto d’immagine: ma per ragioni complesse vengono progressivamente a mancare, negli studenti, le abilità di base per sentirla davvero come una parte importante della propria formazione. Prima fra tutte la capacità di riflettere sull’uomo per il puro piacere di farlo, senza tornaconti immediati. Le recenti riforme della scuola, con la loro tecnologizzazione estrema e la loro attenzione quasi esclusiva ai numeri, agli schematismi e ai risultati, certo non aiutano. La competizione con se stessi, quella che aiuta la scrittura in genere e la scrittura aforistica in particolare, non può quantificarsi in nessun rating; costa fatica, persino frustrazione; esige tempi distesi, non entra in alcun programma d’esame – tantomeno in alcun questionario! – ed è nemica delle tabelle. Ma qui si apre un discorso inesauribile.

– 7) A tuo avviso, l’aforisma può e deve distinguersi dalle varie forme di comunicazione “veloce” oggi tanto in voga come il tweet, lo slogan, la battuta, ecc…)?

Credo di aver già risposto, in parte, nella domanda precedente. La differenza tra aforisma e semplice battuta è impalpabile ed evidente insieme: è nel peso specifico, nell’enorme valore aggiunto della riflessione distillata, del mosto lasciato fermentare e depurato con tenacia. Aggiungo che, come non aiutano i programmi ministeriali, altrettanto poco aiuta la rete. Un sistema d’informazione che ha tanti vantaggi, ma certo non quello di far riflettere con calma e in profondità. E che, per giunta, non stimola particolarmente la memoria – altro ingrediente fondamentale nel trasmettere la vera cultura aforistica.

– 8) Ritieni che la Grande Rete possa aiutare la diffusione del buon aforisma o che, piuttosto, ne faciliti la degenerazione in forme superficiali e scorrette?

Aggiungo a quanto ho già detto che diffusione e degenerazione – spesso ma non sempre –
stanno dalla stessa parte. Ma questo è insito in ogni forma di comunicazione culturale.
Forse bisognerà aspettare qualche decennio per giudicare con sintesi di causa se la rete
sia un alleato o meno della riflessione, e della cultura in genere.

– 9) Pensi che la tua esperienza personale, quale autore di aforismi, sia stata fonte di maturazione letteraria, intellettuale, umana? Altrimenti, può esserlo in qualche modo?

Può sembrare un paradosso: l’incontro con l’aforisma, per me, è stata una scoperta
precoce, ma una conquista tardiva. La scoperta si rinnova ogni giorno; per la conquista mi sento perennemente non all’altezza del genere. E questa è la ragione principale per cui preferisco parlarne in punta di piedi, come di un amore appassionato, da cui ci si sempre perennemente respinti. Ma è giusto così. Meglio sentirsi sempre inferiori all’oggetto d’amore che attaccare con arroganza il cappello al chiodo…soltanto così si continua a crescere. E forse, di conseguenza, anche a far crescere chi si senta animato dalla nostra stessa tensione.

10) Quali ritieni siano le migliori doti che deve avere un autentico aforista, oltre alla propensione per la sintesi?

Umanità, “pietas”, intelligenza mobile e sottile come un fluido, spiccato senso del ritmo:
forse anche, a dispetto di tutto, un’impenitente passione per la vita. E propensione per la
metafora, pur senza mai indulgervi oltre la stoccata, il colpo di fioretto. Bisognerebbe a
questo proposito riflettere sul fatto che parecchi aforisti – non tutti – siano anche bravissimi poeti: penso, soltanto per restare in Italia, ancora a Merini e Spaziani, o tra i viventi a Cesare Viviani. Eppure scrivere versi e scrivere sentenze sono due abilità distinte, in qualche modo alternative, benché sia possibile e frequente incontrarle nella stessa persona. Ripeto spesso ai miei studenti che l’aforisma e la poesia sono come la mano destra e la sinistra, o se si vuole come i due emisferi del cervello: debbono dialogare, ma non confondersi. Anche qui sta la difficoltà, la fatica, la pazienza, il camminare sul filo del rasoio, come funamboli.

– 11) Ti senti contrariato se un aforisma di tuo conio viene pubblicato in contesti di pubblica lettura senza che sia citata la sua paternità? In sostanza: secondo te dovrebbe davvero, un aforisma, essere – come sostiene Maria Luisa Spaziani – “cosa volatile, spontanea, che nasce come un fiore e non esige alcuna sigla di origine”?

Ogni scrittore vorrebbe segretamente essere ricordato per la sua opera, ancor più che per la sua firma. In fondo, ciò che si scrive nasce per natura anonimo, o meglio “apocrifo”: appena raggiunge una forma si distacca da noi, non è già più di nessuno, è del mondo. Certo è facilissimo “rubare”, magari involontariamente, un aforisma, ma oggi – complice la rete – questo è vero per qualunque genere letterario e scientifico. Perché non fare allora il contrario, cercare di risalire dalla sentenza al suo autore? Sarebbe immensamente più stimolante, sia per chi scrive che per chi legge. Certo a nessun autore bravo e appartato fa piacere sapere di essere stato l’involontario “ghost writer” di qualche penna pigra, malandrina e famosa: ma questa del plagio è una questione delicata, che ha a che fare con virtù oggi poco praticate: la lealtà, la dignità, il “fair play”, l’orgoglio stesso di pensare e di scrivere. Credo che si tratti di un problema pedagogico, intervenire sul quale è estremamente difficile.

12) C’è una tua silloge, pubblicata o meno, alla quale ti senti più legato perché meglio ti rappresenta?

Ho pubblicato finora una sola silloge, “Breviario”, delle edizioni Joker. Sto lavorando alla seconda e mi rendo conto di essere diventata, anche rispetto alla mia opera d’esordio aforistico, terribilmente esigente. Cancello assai più di quanto non conservi, e di questo passo chissà mai se la nuova raccolta vedrà mai la luce! Ma forse non importa poi così tanto. L’importante è continuare a pensare, con onestà e coraggio, e condividere lealmente i propri pensieri. Mi sento fortunata ad avere incontrato compagni di strada eccezionali, che hanno creduto in me e mi hanno incoraggiato. Loro lo sanno. Per il momento mi basta, e credo non sia affatto poco.

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Nota BioBibliografica

Alessandra Paganardi (1963), scrittrice e saggista, ha collaborato con la casa editrice Puntoacapo e pubblicato saggi e recensioni su riviste letterarie internazionali. Raccolte di poesie: La pazienza dell’inverno, Puntoacapo editrice, 2013 (premio Operauno per l’edito, 2014; segnalato ai premi Montano,
2013 Pontedilegno 2014, Abbadia San Savino 2015;); Tempo reale, Joker edizioni, 2008 (premio San
Domenichino, 2009); Ospite che verrai, 2005 (ristampa 2007). Plaquette: Frontiere apparenti, Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2009; Vedute, Ibiskos Ulivieri, Empoli 2008; Binario provvisorio, Circolo Culturale Seregn’ de la Memoria, Seregno 2006; Potevamo dire l’assenza, Crimeni, Olgiate Comasco 2005); Wish, edizioni Sagittario, Genova 2004, a cura di E.Grasso; Espansioni, Il club degli autori, 1998. Saggi critici, aforismi e prosa narrativa: The new italian aphorists (AA.VV, antologia collettiva bilingue a cura di Fabrizio Caramagna), USA 2013; Breviario (Premio “Merini” 2013); La magnolia contro le persiane, in AAVV, «Milano per le strade: racconti», Azimut, Roma 2009; Lo sguardo dello stupore: lettura di cinque poeti contemporanei, (Viennepierre 2005, finalista “Nabokov” 2008). Per gli aforismi inediti ha ricevuto la menzione speciale della giuria al premio “Torino in sintesi” nelle edizioni 2010 e 2014.