Intervista a Maurizio Manco

INTERVISTA A MAURIZIO MANCO

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1) Tra i molti generi letterari, cosa determina in te la predilezione per la “forma breve” e per l’aforisma in particolare?

Una certa innata diffidenza verso i sistemi, costruzioni imponenti ma tanto più inabitabili e inumane quanto più ‘perfette’. Dell’aforisma mi attrae il suo essere un genere antidogmatico, antiretorico, che suggerisce, provoca e insinua piuttosto che prescrivere; la sua concisione, l’incisività, la capacità di creare cortocircuiti mentali che, rovesciando luoghi comuni, illuminano aspetti insoliti delle cose; il primato che assegna all’intuizione sulla spiegazione: un atto di fiducia verso il lettore. Un altro aspetto che ne apprezzo molto è, pur nella (o grazie alla) sua frammentarietà, la sua indubbia funzione speculativa, il suo forte legame col pensare filosofico.

2) Quando è avvenuto il tuo primo incontro “fatale” con l’aforisma? E da cosa sei stato indotto a cimentarti in questo genere?

Nelle mie letture ho da sempre avuto la tendenza a isolare le frasi icastiche, che conservano una loro validità indipendentemente dal contesto e, anzi, da tale estrapolazione sembrano perfino guadagnare in pregnanza. Ne ho raccolte migliaia. Ma l’incontro “fatale” è stato senz’altro quello, folgorante, con l’opera di Cioran, con cui ho sentito immediatamente una profonda affinità spirituale. Una delle molte cose che ho imparato da lui è che “si tira un aforisma come si tira uno schiaffo”: non per offendere o danneggiare, ma con l’intenzione di risvegliare dal ‘sonno della ragione’, di scuotere la coscienza dall’atrofia. E, dopo averne presi tanti – una terapia salutare – mi è venuta voglia di provare a darne a mia volta qualcuno. Insieme a qualche carezza.

3) Quali sono stati i grandi aforisti della letteratura classica che più ti sono congeniali e che ti hanno eventualmente ispirato? Ci sono uno o più aforismi sull’aforisma che secondo te definiscono al meglio questo genere?

I Presocratici, che l’usura del tempo e l’oblio hanno reso aforisti involontari. Seneca. Marco Aurelio. Montaigne. Pascal. Chamfort. Leopardi. Schopenhauer. Nietzsche. E per il Novecento: Kraus, Valéry, Canetti, Cioran e, in Italia, Giuseppe Rensi, Flaiano, Morandotti, Pontiggia, Sgalambro, Quinzio, Ceronetti, Rigoni. Credo che, trattandosi di un genere che sfugge alle etichette, nessuno dei molti aforismi sull’aforisma ne dia una definizione soddisfacente. Tuttavia mi piace citarne alcuni fra quelli che più sento vicini alla mia idea di aforisma: “La superiorità dell’aforisma consiste nell’uccidere la spiegazione.” (Mario Andrea Rigoni) “[L’aforisma] conserva gelosamente il suo margine di ombra: è lì che nasconde la sua verità.” (Ferruccio Masini) “L’aforisma è l’uso pessimistico della scrittura.” (Manlio Sgalambro)

4) Ritieni che la letteratura aforistica contemporanea, in Italia, abbia dei rappresentanti in grado di raccogliere qualitativamente l’eredità dei nostri maestri del passato?

Forse. Ma occorre umiltà, duro lavoro, un maggiore ricorso al “dio della cancellatura” (Flaubert) da cui deve scampare solo ciò che ha messo radici sulla pagina. Ad ogni modo, ciò che vale resterà. Credo inoltre che alcuni nostri filosofi e intellettuali – penso a Giorgio Agamben, Franco Rella, Salvatore Veca e altri – potrebbero scrivere ottimi aforismi. Il fatto che non lo facciano è forse sintomo della scarsa considerazione di cui il genere gode nel mondo accademico.

5) A cosa ritieni sia dovuto il calo d’interesse verso l’aforisma, nei tempi recenti, da parte del mondo editoriale?

Il mondo editoriale è, purtroppo, vincolato al mercato e, con poche ammirevoli eccezioni, manca di coraggio. Resta il self publishing, ripiego un po’ malinconico.

6) Esiste, a tuo avviso, una strada da percorrere perché l’aforisma torni a conquistare l’attenzione dei lettori, soprattutto quelli delle nuove generazioni? Quali azioni indicheresti?

A prima vista potrebbe sembrare che l’aforisma, per la sua concisione, sia un modo espressivo congeniale ai nuovi media e alle nuove generazioni. Ma è un’affinità solo apparente. Non bisogna confondere la brevità densa dell’aforisma, che richiede attenzione, riflessione, e il cui peso specifico è inversamente proporzionale alla lunghezza, con la velocità spesso superficiale dello slogan effimero, ornamentale o della battuta ammiccante, triviale. Perciò, non sono ottimista. Anche perché per sua natura l’aforisma, genere
impegnativo anche quando fa sorridere, perturba. Costringe a pensare a temi da cui la maggioranza, con accanimento a volte disperato, cerca di distrarsi. Spinge a scrutare zone della vita da cui molti scelgono di stornare lo sguardo. Sollecita a concentrarsi proprio su ciò che, per quieto vivere, si vorrebbe eludere. E solo i pochi in grado di apprezzare il salutare malessere e il benefico disagio del pensiero sono disposti ad affrontare questa fatica. Ma, detto ciò, parafrasando Valéry, “il faut tenter d’écrire”. Se non altro per i nostri “venticinque lettori”.

7) A tuo avviso, l’aforisma può e deve distinguersi dalle varie forme di comunicazione “veloce” oggi tanto in voga come il tweet, lo slogan, la battuta, ecc…)?

L’aforisma si distingue da sé. Per la qualità. Emerge come un diamante nel fango, indipendentemente dal mezzo dove è pubblicato: un aforisma su Twitter resta un aforisma, una battuta in un libro di aforismi resta una battuta. Tuttavia, anche l’uso (o l’abuso) che se ne fa può nobilitarlo o, banalizzandolo, svilirlo. C’è poi, come per ogni opera d’ingegno, il problema della ricezione. Come dice Gómez Dávila: “Le frasi sono pietruzze che lo scrittore getta nell’animo del lettore. Il diametro delle onde concentriche che esse formano dipende dalle dimensioni dello stagno.” Perciò, anche il miglior aforisma – come la migliore poesia, o la migliore musica – se cade in un animo angusto, può risuonarvi meno della battuta più scadente.

8) Ritieni che la Grande Rete possa aiutare la diffusione del buon aforisma o che, piuttosto, ne faciliti la degenerazione in forme superficiali e scorrette?

Può fare, e fa, entrambe le cose. La Grande Rete è uno smisurato contenitore informe e onnivoro, che cattura di tutto. C’è da sperare che il Tempo, selezionatore (quasi) sempre giusto, sappia trascegliere i pesci buoni da quelli cattivi, come nella parabola evangelica.

9) Pensi che la tua esperienza personale, quale autore di aforismi, sia stata fonte di maturazione letteraria, intellettuale, umana? Altrimenti, può esserlo in qualche modo?

Mi piace pensare di sì. Leggo con più senso critico. Scrivo con più rigore. Vivo con più disciplina verso me stesso e con più compassione verso i miei accidentali compagni di viaggio e di destino in questa “nave salpata da un porto ignoto per un porto ignoto” (Pessoa).

10) Quali ritieni siano le migliori doti che deve avere un autentico aforista, oltre alla propensione per la sintesi?

Credo che occorra una combinazione di doti etiche e tecniche. Essere un disilluso, ma anche un sognatore. Cinico, ma anche idealista. Solitaire, eppure solidaire (Camus). Avere il coraggio di pensare fino in fondo, ironia, lucidità, attitudine alla scepsi, al rivoltare le cose. Curiosità per il mistero inesauribile del mondo e della terribile meraviglia della vita, pietas per l’uomo e per la tragicità della sua condizione. Ma si possono avere tutte queste doti e tuttavia non essere in grado di esprimersi in forma aforistica. Occorre anche tecnica, conoscenza delle possibilità espressive della lingua, e soprattutto la capacità di trovare un proprio tono, un accento personale, la propria cifra.

11) Ti senti contrariato se un aforisma di tuo conio viene pubblicato in contesti di pubblica lettura senza che sia citata la sua paternità? In sostanza: secondo te dovrebbe davvero, un aforisma, essere – come sostiene Maria Luisa Spaziani – “cosa volatile, spontanea, che nasce come un fiore e non esige alcuna sigla di origine”?

A un certo punto bisogna lasciar andare i propri figli. Ma la paternità resta importante. Se non altro per una questione di rispetto.

12) C’è una tua silloge, pubblicata o meno, alla quale ti senti più legato perché meglio ti rappresenta?

Tutto ciò che scrivo mi rappresenta, mentre lo scrivo. Perciò, oggi mi sento meglio rappresentato dal lavoro dei miei ultimi anni, raccolto in Sismografie, silloge ancora inedita. Anzi, ne approfitterei per lanciare un appello …

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Bibliografia

Maurizio Manco (Gallipoli, 1963), è laureato in Storia dell’Arte a Firenze, città dove vive e lavora,
occupandosi di diritti civili, nella pubblica amministrazione. Schivo per natura, umanista malgrado
l’uomo, verso cui nutre un fiducioso scetticismo, coltiva masochisticamente il benefico disagio del
pensiero, sempre in bilico tra sogno e disincanto, idealismo e cinismo. Pratica ossessivamente il
“vizio impunito” della lettura, con un’insana predilezione per gli scrittori suicidi; pesca perle
letterarie e colleziona citazioni. Da quando è rimasto folgorato sulla via di Cioran, scrive aforismi,
tentando con alterno successo di affrancarsi dall’imprinting del maestro di stile e di vita, ma senza
giungere al parricidio.

Sue sillogi aforistiche sono state pubblicate in alcuni volumi antologici: Disappunti (in “Geografie
minime”, Edizioni Joker, Novi Ligure 2015); Senza titolo (in “Le figure del pensiero – Antologia
del Premio Nazionale di Filosofia – X Edizione”, Sillabe di Sale, Condove 2016); Scatti (in
“Antologia del Premio Internazionale per l’Aforisma ‘Torino in Sintesi’ – V edizione – 2016”,
Edizioni Joker, Novi Ligure 2016).
Con FUOCOFuochino ha pubblicato Generi di sconforto. Aforismi (Viadana 2017)