Intervista a Ugo Piscopo

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1) Tra i molti generi letterari, cosa determina in te la predilezione per la “forma breve” e per l’aforisma in particolare?

E’ un reticolo complesso di ragioni, che, attraverso canali intercomunicanti, mi intrigano in uno spazio, dove si incontrano manierismo e misticismo, illuminazioni della mente e urti nel buio, superficie e profondità, gratuità e ricerca.

2) Quando è avvenuto il tuo primo incontro “fatale” con l’aforisma? E da cosa sei stato indotto a cimentarti in questo genere?

Da piccolo ho avuto un suggestivo incontro quotidiano con l’aforisma, quando ancora non sapevo, né potevo sapere, che esso esistesse e che cosa fosse. Sono cresciuto, infatti, in campagna con nonni contadini, che parlavano poco – per educazione e per economia di tempo -, ma, quando parlavano, comunicavano in sintesi e in prospettiva un insieme di cose. E chi sentiva, piccolo o grande di età, doveva capire all’istante il tutto, anche se esso era avvolto soprattutto nelle pieghe e nelle allusività del discorso, e, insieme, doveva registrare nettamente in memoria i precisi, icastici particolari di riferimento. Grande maestra di questo stile era mia nonna, analfabeta sì, ma abilissima amministratrice delle risorse freschissime e imprevedibili dell’analfabetismo. Il suo segreto era di leggere in profondità le situazioni e ridurle a poche parole da interpretare, anzi da scolpire efficacemente nell’animo di chi sentiva.

3) Quali sono stati i grandi aforisti della letteratura classica che più ti sono congeniali e che ti hanno eventualmente ispirato? Ci sono uno o più aforismi sull’aforisma che secondo te definiscono al meglio questo genere?

Grandissimi aforisti sono stati innanzitutto gli autori, che hanno praticato questo modulo, per esigenza di infilzare allo spiedo della parola situazioni fra loro distanti e, alla luce del buon senso ordinario, improbabili. Tali, i poeti orfici e i costruttori di quella che Giorgio Colli chiama la Sapienza delle origini, gli scrittori ermetici di ogni tempo, i manieristi da Callimaco in qua, quelli che, anche anonimi, hanno inquisito e interpretato al meglio le profondità e le complessità dell’esistenza nelle culture asiatiche, ma anche in quelle africane, precolombiane, oceaniche. Nel moderno, hanno avuto grande suggestione su di me tra gli spagnoli, Gracian, San Juan de la Cruz, poi Lorca, Alberti, Jiménez, Guillén, Diego, Cernuda e particolarmente Bergamin; tra i francesi, Rimbaud, i simbolisti, i surrealisti; tra i tedeschi, Novalis, Goethe, Rilke; tra gli inglesi, Shakespeare, Donne e poi Wilde.
Se ci sia un aforisma che definisca per eccellenza l’aforisma? Certo che c’è ed è questo di José Bergamin, in cui, come dice Agamben, il frammentismo postromantico s’incastra nella tensione cristiana verso l’Assoluto: “L’aforisma non è breve, è incommensurabile”.

4) Ritieni che la letteratura aforistica contemporanea, in Italia, abbia dei rappresentanti in grado di raccogliere qualitativamente l’eredità dei nostri maestri del passato?

Sì, la possibilità c’è e, se non ci fosse, bisognerebbe inventarla. Ma so anche che non è facile inventarsi una scrittura degna continuatrice del vigore di un Cavalcanti, di un Leonardo, di un Machiavelli, di un Guicciardini. So, infine, che un aforista genuino, per potersi salvare, deve tenere le distanze dagli aforisti diprofessione, che, come aprono bocca, fanno guizzare fuori aforismi che saltellano di qua e di là come serpentelli, ce ne sia o meno bisogno.

5) A cosa ritieni sia dovuto il calo d’interesse verso l’aforisma, nei tempi recenti, da parte del mondo editoriale?

Nell’interesse generale e, quindi, nella stessa editoria, una flessione c’è ed è dovuta a molteplici fattori, che complessivamente inducono saturazione e insieme banalizzazione del ricorso all’aforisma. Nei fatti, si sono rotte le dighe e c’è un’alluvione di aforisticità, sui giornali, nei telegiornali, nei talk show, sui social network, per strada, nei salotti, nei pub, alle stazioni ferroviarie, alle edicole, dove, però, in mezzo a tanti aforismi e dintorni di maniera, ce ne sono anche di buoni e incisivi. Sotto questo aspetto, verrebbe la tentazione di cercare gli aforismi oggi, soprattutto fuori della scrittura di produzione specifica dei medesimi.

6) Esiste, a tuo avviso, una strada da percorrere perché l’aforisma torni a conquistare l’attenzione dei lettori, soprattutto quelli delle nuove generazioni? Quali azioni indicheresti?

Forse esiste. Ed è quella di contenere la foga produttiva, pensare in proprio per quello che è possibile in mezzo al chiasso dilagante e in un contesto di controllo anche delle scelte e dei gusti, ascoltare la voce e la musica del silenzio, provarsi a fare domande azzardose e aperte, senza pregiudiziali attese di risposte, soprattutto di “quelle risposte”.

7) A tuo avviso, l’aforisma può e deve distinguersi dalle varie forme di comunicazione “veloce” oggi tanto in voga come il tweet, lo slogan, la battuta, ecc…?

L’aforisma è un evento, che si pone in essere come allegria dei cristalli nel frangersi. Così dice Nietzsche. Non è, non può essere allevato e prodotto in orti conclusi o in torri eburnee. Non è, quindi, da sé che nasce per partenogenesi, né si proietta verso ambienti disinfestati di germi a rischio. Si offre all’arte e alla vita, ma quali terre incognite dove può prendere corpo l’impossibile. Oggi, deve confrontarsi con l’oggi e con ciò che lo abita o lo invade e lo caccia fra sentieri interrotti, per dirla con Heidegger. Ma deve portare con sé un “non so che”, una Sehnsucht come dicevano i romantici tedeschi, un suo avvolgente e conturbante profumo, incomponibile con tutti gli altri profumi.

8) Ritieni che la Grande Rete possa aiutare la diffusione del buon aforisma o che, piuttosto, ne faciliti la degenerazione in forme superficiali e scorrette?

La Grande Rete, se c’è, come c’è, e se funziona come essa sola sa funzionare, cioè come congegno che macina di tutto e fa mangiare di tutto, allora, naturalmente, anche il “buon aforisma” e tutte le altre espressioni e invenzioni artistiche devono dare il loro apporto alla grande macina, non possono scamparsela. Chiaramente, però, in circolazione va non il “buon aforisma”, con le altre espressioni artistiche, ma la reificazione dell’aforisma e del resto. Va in giro il “ponsif”, come diceva Baudelaire, un banale simulacro del vero. D’altronde, l’arte e la poesia vengono alla luce in fortunate circostanze, che non si ripetono, se non per imitazioni e duplicazioni di rito o di mercato.

9) Pensi che la tua esperienza personale, quale autore di aforismi, sia stata fonte di maturazione letteraria, intellettuale, umana? Altrimenti, può esserlo in qualche modo?

La mia esperienza personale dell’aforisma non ha avuto nulla di liturgico. L’ho praticata specificatamente, quasi per intervalla insaniae, come dice San Girolamo di Lucrezio. L’ho, spesso e volentieri, a sfida, calata nel concreto della mia relazionalità in chiave ludica col mondo, in famiglia, nella scuola, nella mia narrativa, nella mia poesia, nella mia attività critica, nei miei testi teatrali. Se essa abbia indotto stimoli in positivo, non so, anche se talora, fra me e me, mi compiaccio di credere che sia servita. Subito dopo, però, mi ammonisco col richiamo alla consapevolezza che il vero piacere del giocatore è quello di parlare all’Assenza, oltre che di saper perdere.

10) Quali ritieni siano le migliori doti che deve avere un autentico aforista, oltre alla propensione per la sintesi?

Ecco qui alcune altre doti: amare le distanze, saper attendere sul bordo del fiume che la corrente porti qualche pesce ad abboccare all’amo, accettare la disperazione senza mai essere infelice, come dice del dandy il mio amico Stefano Lanuzza; convivere con l’ironia che si frappone puntualmente fra l’autore e la sua arte, per dirla con José Bergamin.

11) Ti senti contrariato se un aforisma di tuo conio viene pubblicato in contesti di pubblica lettura senza che sia citata la sua paternità? In sostanza: secondo te dovrebbe davvero, un aforisma, essere – come sostiene Maria Luisa Spaziani – “cosa volatile, spontanea, che nasce come un fiore e non esige alcuna sigla di origine”?

Ha perfettamente ragione Maria Luisa Spaziani nel sottolineare che l’aforisma non ha alcuna sigla d’origine. Ma è, questa, affermazione che va estesa allapoesia tutta intera e a tutta l’arte. La poesia, dice Valéry, è uno “strano discorso, che sembra profondamente tenuto da un personaggio diverso da colui che lo proferisce”. A dettarlo, sostengono i surrealisti, è una bouche d’ombre. Anche l’aforisma, dunque, non è proprietà dell’aforista, appartiene a tutti. Ma però… esso va citato col nome dell’autore, per onestà filologica. Solo l’autore può citarlo o recitarlo a nome della collettività e per la collettività. Proprio come faceva il giovane Garcìa Lorca, quando aveva messo su una sua compagnia di giovani teatranti e dava gli spettacoli suoi in giro per la Spagna, senza inserire mai il suo nome d’autore in cartellone o nelle comunicazioni alla stampa. Puntualmente, però, citava i nomi di tutti gli altri autori, antichi e moderni, dalle cui opere traeva materia per i suoi adattamenti e per le interpretazioni in scena dei suoi amici attori.

12) C’è una tua silloge, pubblicata o meno, alla quale ti senti più legato perché meglio ti rappresenta?

Non ho mai pubblicato una mia raccolta specificatamente di aforismi. Né so se lo farò mai, proprio come fece Guicciardini dei suoi “pensieri”, che vennero alla luce postumi.

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Bibliografia

Ugo Piscopo, nato a Pratola Serra (AV), vive e lavora a Napoli. Benemerito della scuola, della cultura e dell’arte, è stato tradotto in francese, inglese, russo, arabo, tedesco e polacco. È lui stesso traduttore per riviste e per case editrici (SEI, Longanesi, Curcio, Palumbo, Guida). Per quest’ultima Casa dirige «Ritratti di città». Come poeta, ha pubblicato le raccolte: Catalepta (1963), e (1968), Jetteratura (1984, Primo Premio Gallicanum 1984), Quaderno a Ulpia la ragazza in mantello di cane (2002, Primo Premio Minturnae 2004), Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura (2003, Menzione speciale al Premio Sandro Penna 2004), Il ricordo del tempo di un bimbo che misura (con Gianni Rossi, 2006), Presenze preesistenti. Pietre di Serra di Pratola Serra (2007, secondo Premio Penisola Sorrentina 2007), Lingua di sole. 12 haiku + 1 e una breve epistola (2008), Andate e ritorni. Wyazdy i Powroty, (a cura di Pawel Krupka, Varsavia, 2008).
Sul «Corriere del Mezzogiorno» ha una rubrica quindicinale di poesia. Suoi haiku sono stati presentati dalla rivista «Poeti e Poesia» (maggio 2010). Sulla medesima rivista erano già stati presentati altri suoi testi nel 2009. La «Rivista Meridiana» nel 2009 gli ha dedicato un omaggio monografico.